Recensione
pubblicata sul “Corriere di Torino e Provincia”
Agli ormai noti “Pleniluni” che
hanno caratterizzato buona parte delle sue composizioni,
Lionello Morone aggiunge ora “Fiori con paesaggi”, “Migrazioni”
e “Fiori con archeologia”. Il contesto generale è il medesimo:
colline e terre in continua tensione, tanto da immaginare
visioni di altri pianeti, i cieli scuri, strisce d’ombra di
fredda intensità, giochi di luce di misteriosa provenienza; poi
la presenza di un astro nell’infinito (non osiamo parlare di
luna o di sole) oppure fiori di fantasia che zampillano come
fuochi d’artificio. E se nei “Pleniluni” si potevano intuire
recondite dolcezze in questa natura primordiale, nelle
“Migrazioni” il colore diventa violenza ambigua, affascinante ma
certamente perturbante. Le insinuazioni di reperti archeologici
nei paesaggi sta a significare – con ogni probabilità – che il
mondo è finito, rimangono piccole vestigia a testimonianza del
tempo passato. In ogni sfumatura tematica, Lionello Morone
evidenzia la solitudine, un senso di panico coinvolge realtà e
ricordi, il segno dell’avventura è marchio materiale e
psicologico. Scrive Ernesto Caballo: “A prima vista, da simili
quadri, si può dedurre, con un tale rapporto di misura e
dismisura temporale, che l’eternità comincia e finisce oggi”. Ma
quale oggi? Le ere di Morone non sono classificabili, rimangono
sospese negli interrogativi più inquietanti ed il dramma
dell’umanità è già terminato, rimane una natura angosciata ad
attendere un nuovo ciclo, rimangono gli astri, i nuovi fiori, i
colori che vogliono vita. Si potrebbe parlare di pessimismo
eppure per una sorta di magico paradosso i dipinti di Morone –
dopo una certa assuefazione – portano serenità e pace, contro
ogni analisi logica.
Vittorio Bottino

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