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Storia e preistoria di un pittore

Che ci siano risultanze allotropiche in non pochi quadri di Lionello Morone è fuori discussione, così come è ammissibile che gli stessi titoli globali, Fiori con paesaggi, Pleniluni, Migrazioni intendano andare oltre la reperibile sostanza del fatto figurale. Ma ci troviamo in un giro per niente vizioso fra uno spogliarsi dalle maniere astratte, informali e da appigli simbolisti e decorativi (certe tessere staccate di fiori fra redoniani e klimtiani) per giungere a un paesaggio fisico, e viceversa – ma di quanti pittori questo si può dire, da Gorky A De Kooning, mettiamo, a Pignon, allo stesso De Stael: le categorie della forma non contano in modo impegnato, esclusivo; la scoperta di certi pittori d’oggi è la libertà anche in questo senso ,giustamente è stato osservato che la materia tradizionale pittorica va osservata come medium.

Dei fiori, sempre ricorrenti in Morone, si può anche osservare che sono embrionali, puntuti, duri; ma che egli intenda, per dirla con Cézanne, realizzare le sue sensazioni alla presenza della natura è innegabile, e giustifica così perfino in senso letterale i titoli delle sue tele, così come gli elementi fedelmente morfologici nei profili di astri, monti, valli no escludono la collusione informale, raggiungendo talvolta una violenza cromatica, come in alcuna Migrazioni, dell’intensità dei “Cobra”, timbrici, finanche percussivi. A buon diritto A. Mistrangelo, dopo aver accennato per alcune di queste opere a un simbolo magico di un nuovo universo, accredita a quei colori un “senso di astrazione contemplativa”.

L’interesse è la molteplice, niente affatto contraddittoria modalità che Morone offre in parecchie sue composizioni con autenticità leggermente spostata nella propria connessione. Ossia, il mondo esteriore esiste, ma con un aspetto di ambivalenza: e citiamo i grumi di colori-case e svirgolature espressioniste dei Paesaggi, le grandi colate cromatiche dei Pleniluni con i ritmi di fuori e quelli interni posti in sincronia. Certo, il filo che collega i quadri all’arte raffigurativa è solido, Morone -almeno oggi – non si pone ai veri confini, gli preme piuttosto fornire un saggio di soggettività senza ricorrere però alle facili allegorie; ma la realtà  è di certo separata dal realismo.

Rimane da esaminare il ciclo di Fiori e archeologia che con quello delle Migrazioni costituisce la più recente versione della pittura di Morone.

Ai fiori, come staccati dal suolo, già siderali, rappresentanti la condizione dell’estremo effimero, e proprio a commisurare la sostanza e la diversità del tempo, si contrappongono nella parte inferiore del quadro graffiti rupestri e runici, dolmen, anfore dissepolte, conchiglie eccetera. In quel rapporto i fiori possono essere considerati quali sismogrammi emotivi come certi calligrafismi di Mathieu.

A prima vista, da simili quadri si può dedurre, con un tale rapporto di misura e dismisura temporale che l’eternità – l’hanno già detto altri – comincia e finisce oggi. Oppure si dimostra che la storia ha diversi punti di vista centrali. Con tutto ciò Morone non manifesta il rischioso piacere di essere “antico”: in una siffatta tematica è meglio lasciar cadere le intenzioni esterne e lasciar carbonizzare i sentimenti. Che, infine, la storia la si cominci a scrivere, o a dipingere, prima che questa esista forse non è un temibile paradosso.

Vogliamo aggiungere che ad alcune di queste composizioni non manca una suggestione animistico - totemica, un’eco sincera d’antiche cose raccontate con impegno, uno scavare o reperire, più che soggetti di architettura, calde tracce dell’uomo: una vera geologia. Si deve trattare di una realtà passata che nutre la presente: una mappa sovente crittografica in cui l’arcaico non disperde la sua lezione che importa più della sua databilità. Ma la distanza fra quelle antiche strutture (e scritture) e noi e certo più psicologica che cronologica; il rapporto, alla fin fine, potrebbe anche rivelarsi a temporale, salvo che Morone abbia con i graffiti, i dolmen,  sottolineato una talquale archeologia del presente (di oggi), un viaggio sempre attuale in una cultura dimenticata ma indispensabile. Ha evitato di esibirsi in qualsiasi esotismo del tempo, ovviando al riguardo anche ogni pseudo-filologia ricostruttiva. Chissà che egli non abbia inteso invece accennare ad una sua privata, personale preistoria. C’è da scommetterlo, se tornerà su un simile motivo.

Vogliamo infine ricordare che le punteggiature gremite e sinuose delle Migrazioni possono assimilarsi a limatura colorata che si muove in campi magnetici (i soliti cieli turchini, scuri d’ogni quadro).

Le incisioni meriterebbero un più diffusa notizia. I fiori, non di consonanza rappresentativa come quelli delle tele, sono bloccati, più corposi e disegnati. E’ un fitto erbario con segni duri e sottili, con valori bruni e bianchi su supporti ritmici sempre variati; fiori, lo ripetiamo, che non sono più come quelle sigle-stenografate d’alcuni suoi quadri. Le morsure, le riprese risultano molte, a secchi tratti nervosi, e la tensione costante n’è forse il maggior pregio; processo ideativo ed esecutivo sono simultanei, si arriva alla pura essenza del soggetto, all’esatta qualità della linea che non è solo mezzo di memoria formale. Non mancano oggetti, fatti a mano d’uomo, reperti immemoriali, come se Morone si fosse piazzato all’origine di quelle cose.

 Ernesto Caballo

 

Gli “Altri Spazi” di Morone

C'è da chiedersi se, qualche volta, Lionello Morone sia un pittore crittografico, il che non significa astratto, informale . Inoltre, ad ogni personale presenta una morfologia rinnovata: prima con Pleniluni, poi con Fiori e Paesaggi, Fiori e  archeologia, Migrazioni e, adesso con Altri Spazi, senza rinunciare al se stesso di sempre.

Per i fiori quasi si direbbe che egli ne incorpori il polline nei quadri e persino nelle lastre: un paradosso, il nostro. Ma definire, il suo, un mondo floreale, sarebbe sfalsare il tutto. Le corolle, rinserrate, punteggiate e gli steli flessibili costituiscono il sogno di lui chiuso a chiave. Nei Pleniluni e in tutte le altre sue "serie" pittoriche risulta implicato un senso "diverso": di una natura che vuole competere con un'altra natura, e ciò mediante una ricerca per analisi e, a quando a quando, lenticolare.

Di originale - l'abbiamo già scritto in una precedente occasione – è ”la molteplice, niente affatto contraddittoria modalità che Morone mostra in parecchie sue tele, con un'autenticità leggermente scostata nelle proprie correlazioni”. Ossia: il mondo esiste, ma con aspetti pluriversi e di ambivalenza; e citiamo i grumi di colore-case, le svirgolature espressionistiche dei Paesaggi, le grandi colate cromatiche dei Pleniluni. Lune che non di rado paiono uscire da crateri, da vertici di monti incendiati, simili, nel profilo, a duomi e fortezze turrite; altra volta irradiano calma, pace, atmosferici interludi sulle alture e lungo le valli.

In Fiori e Archeologia egli commisura un presente immediato, senza durata, con un evo antichissimo. La scala, l'arco del tempo ha in Morone molte classificazioni, norme e ordine rappresentativi. Ad impegnarlo sono le distanze, contrapposte ad altre distanze, non valutabili a palmi di pittura. E le Migrazioni risultano ancora le metafore di  queste lontananze, l'aspirazione a giungere a remote, opposte rive che forse non sono più terrestri; si veda la densità, la smarginatura di molti suoi  cieli, in apparenza calmi. Insomma: lo spazio è grande dentro e fuori di noi, e questi dipinti ne segnano fasi e poli irreversibili.

C'è un senso, proprio nelle migrazioni, non solo dell'alternanza delle stagioni, ma del grande inarrestabile flusso dell'esistenza nei suoi aspetti premonitori e, insieme, suggestivi; si sente il fiato largo di un esodo per i cieli, reso più attraente dal mistero. Dove si poseranno quegli stormi di un'estensione davvero galattica?, è forse l'abbandono, senza scampo, seppure in una cornice luminosa? Ci chiediamo se riprenderà domani quel concerto di gioie, di canti, di colori; se se torneranno quelle colonie di uccelli, sinuosamente e vivacemente, in sintesi, punteggiate (a seconda dei quadri vengono usati tinte diverse). Tutto sembra “scritto” nelle tele, negli incisi di Morone sotto il dettato della speranza in nuovi incontri; ciò malgrado, ci resta l'assillo dell'attesa.

Quel volo che attraversa arie boreali, vapori tropicali, penetrando pure la nostra vita, ci appare enigmatico, come enigmatica è la rotta, verso chissà quali plaghe. Migrazione può essere mutazione radicale nel mondo d'oggi sempre cangiante.

C'è pure una tal quale festa della meraviglia, della tenerezza in questi alti “passi” - che evoluiscono a folte cadenze-, ma accompagnata dal rimpianto. Osservando quei nugoli alati, l'insicuro e il certo, riguardo al ripetersi o meno dell'innocenza di tale gioco, fanno contrasto dentro di noi.

Speriamo significhi un condurre al largo, ad una spiaggia ospitale, anche noi, uomini disorientati. Vorremmo conoscere le notizie che gli stormi portano con sé, vorremmo anche noi approdare su un sogno. Ma non sono i desideri che contano, bensì come vengono espressi e raccontati: Morone ce ne ha dato la favola. Intanto ci illudiamo di possedere le sequenze delle sue Migrazioni con un solo sguardo.

E ora in questa personale si aggiunge la serie inedita d Altri Spazi. Come Eraclito era un “dirottatore di dogmi”, Morone è, a suo modo, un dirottatore di idee-immagini. I suoi paesi, prima radicati per colline e valli, si alzano con movenze aquilonari, cercano e trovano un ambito che però non attenua la terrestrità dei colori, delle impalcature struttive, anzi l'accentua. Vedi, oppure intravedi, talora, panorami o, meglio, la loro ombra riflessa negli sfondi e al basso, luoghi di sempre che forse non sono più una nostra patria.

Paesi che salpano, diventati imponderabili all'apparenza; la loro storia, la loro coscienza si proietta sull'orizzonte. Una sorte, un prodigio comune a molti, oggi che lo spazio ha gran parte nelle misure umane, e guida, coinvolge noi stessi, le nostre remote e recenti memorie. Sarà un presente diverso, un nuovo filo conduttore che ci porta alle soglie di un “non finito”, e ci ricorda il motivo delle Migrazioni dello stesso pittore, ma che stavolta investe un maggiore agglomerato di colori, di volumi: è la nostra condizione “sconosciuta” che aumenta rispetto a quella “nota”.

In tale senso Morone sceglie una sua logica esecutiva, permeata certo di fantasia; lo zenith rimane ancora lontano, ma le cose e i fatti parlano già la lingua della magia; conta però sempre il peso corporeo, materico dei colori distribuiti abilmente, in sequenze a volte translate. Se uno degli assunti primari della pittura è l'invenzione, questo rappresenta un dato evidentemente inventivo. Il mondo ha molti piani, come pure il suo cielo; adesso Morone dipinge ciò che vede, o immagina, in alto. O sono figure che non più la funzione del loro nome, con l'astrattivo che acquista rilievo in questa traversata di pieni, di rigurgiti, di vuoti d'aria, ma ancora con gli elementi fisico-cromatici della realtà.

Chi ha parlato di “viaggi immobili”?: forse questi lo sono, malgrado l'abbrivio che sovente diventa urto ascensionale. Sono forme, composizioni spesse, dai contorni movimentati di nebulose già addensate, le quali hanno invertito la loro marcia, fuori di un tempo cristallizzato che non sappiamo valutare, che forse non esiste più. La vera via è altrove anche per queste meteore: è il caso assoluto che dobbiamo accettare nei nostri giorni di grandi e piccole relatività. Siamo al punto topico in cui tutti i contrasti si conciliano.

Dopo anni di assenza, al ritorno, anch'io vedevo il mio paese natale librarsi sopra il bosco e la roccia, come in un'architettura disegnata  da Antonio Sant'Elia; ciò significa collocare le cose, malgrado tutto, su un piano contemporaneo non solo mentale. Si può discorrere tanto di geografie e astrografie gnomiche quanto di una nozione di spazio che è assai meno innaturale di come sembri.

Saranno archetipi di un habitat che Morone ci  presenta gravitante in un cielo dove linee, figure si intersecano, si sovrappongono senza perdere equilibrio in quelle masse filanti, stillanti talora di arcobaleno.

“Per ogni giorno c'è un paese nuovo per me”, è stato scritto; ed ecco il pittore appagato: la sua Atlantide ora naviga alta su di noi.

Ci sono poi le incisioni (acqueforti, acquetinte), sei delle quali raccolte nella cartella Fiori Parlanti, contrappuntate dai ersi di Marco Franceschetti. Con le sue percezioni, i suoi tempestivi rimandi, il poeta si confronta in modo allusivo rispetto alle immagini,  senza cioè tenere, a buon diritto, un mero registro testuale di convergenze, senza parallelismi, troppo analogici.

Nella cartella, lo stesso scontro mimetico fra i due autori dimostra però che essi si modellano mutuamente, ciascuno del proprio stile; ed è uno dei pregi di Fiori Parlanti, forse con qualche implicazione occulta.

I fiori, morfologicamente inconsueti, embrionali, non si sottraggono tuttavia ad una nomenclatura: valerianacee, diventate pappi piumosi: (In un soffio / ti ricordo… scrive entrando nel gioco Franceschetti); ci sono fasci di papaveri: (E’ il papavero / che imporpora / il tuo viso… così risponde l’eco del poeta). Sono “liriche” visive” poste accanto, in una reciprocità effettiva, a liriche scritte. Nelle lastre di Morone i soggetti hanno chiarezza, anche sottigliezza d’impostazione; le prospettive, gli scorci, appaiono sempre mobili, dentro temperie svarianti come in Grano maturo con ventilabro. Il “fugato” di fiori continua perfino su sfondi di graffiti e reperti, impronte rupestri: è l’arcaico coniugato col presente effimero, dissociazioni “non discordi” di cui si sente la pronuncia esatta nelle strofe, tutte a flussi luminosi, di Marco Franceschetti.

Oltre la cartella, continua l’attività incisoria di Morone nelle stampe singole, a sé stanti, alcuni bicolori quali Cielo stellato, due Migrazioni, un Plenilunio; altre in rosso-arancio, seppia, marrone, oltre i bianco-grigi-neri. Sono i temi della sua pittura, ma iterati liberamente; anzi alcuni presentano marcati distacchi dalle tele, ad esempio Triciclo abbandonato in un prato. Fra le lastre più riuscite ne citiamo una che, in maniera meditata, ci ricorda il segno elegante di Mathieu e lo sfrecciare serrato, davvero meteorico, di Hartung: vi s’impagina appunto una meteora di Altri spazi e una migrazione, in uno slancio timbrico sottolineato da una specie di contro canto. La grafica, si sa, è la “spia di un artista”; H. Focillon afferma che è “l’alterno diario della mano umana”.

Si apprezzano nei fogli una ritmica costante, fitta, le zone di luce risolventi, il curveggio ora regolare, ora uncinante; i vari rapporti del disegno assumono l’omogeneità voluta da Morone.

Trapela dall’opera dell’incisore, un’intima rivelatrice del suo carattere, cui fanno riscontro, e ne derivano, stati d’animo evidenti.                                                                                                   

                                                                               Ernesto Caballo  (1977) 

 

Migrazioni e Pleniluni

Sono stato forse il primo “lettore” dei dipinti di Lionello Morone- ”mon lecteur, mon frère” - gli ho suggerito di staccarsi dalla setta privatissima degli iniziati, pur assecondando più di un ammicco al metafisico e all'astratto. Pittore, fra l'altro, di paesaggi allusivi, egli non vi chiude sopra i cieli; vive con una certa irrequietudine la propria moderazione, affronta la pena costitutiva dell'uomo che vuole creare una visione del suo mondo; riesce ad equilibrare le polarità delle cose rappresentate, sapendo che, oltre al colore e alla luce, conta la posizione, cioè lo spazio che invade lo spirito. Eppoi ha una gran modestia di fondo, non già di mezzi espressivi, e l'arte per lui è qualcosa di più di una speranza, di una scommessa: voglio dire che Morone non si cura dei “pedaggi terreni” (Apollinaire) e d’altri onori proibiti, ad esempio la maestria, di cui possiede ad ogni modo gli appigli; ma ogni uomo vive, respira in un proprio stile.

Egli non sceglie la neutralità, bensì il confronto. E' per il reale, benché lo de-realizzi: lo ha dimostrato nella serie di Fiori paesaggi, nei Fiori e archeologia, in Altri spazi e in una cartella d’acqueforti tutte implicate nel seguire connotazioni d’aspetti pluriversi e, al contempo di una schietta, articolata equivalenza.

Oggi presenta a Cuneo Migrazioni e Pleniluni, nell'alternanza delle modalità pittoriche e grafiche. Nella prima serie si avverte non solo il passo delle stagioni, ma il grande, inarrestabile flusso dei loro aspetti premonitori, e si sente il fiato largo dell'esodo attraverso i cieli, reso più suggestivo da un mistero. Dove si poseranno questi stormi migranti, di un'estensione e distanza davvero galattica? E' forse l'abbandono, l'addio estremo, senza scampo, seppure in una cornice luminosa? Ma noi crediamo in una via d'uscita che si riaprirà dentro di noi. Si nota nei quadri, nelle acqueforti delle Migrazioni una stimolante associazione dell'uomo con gli impulsi e gli orientamenti naturali (non naturalistici). Tutto s'incentra nel fiore dei nervi che emancipa il fitto repertorio e le sue raffigurazioni dal gioco del caso e delle congetture.

Vale inoltre la consistenza dell'immagine in se; se si prospettava un labirinto fra la vita e l'uomo che la “dipinge, questo labirinto non esiste più essendo stato superato. Si registrano infine momenti di un paese alto e dolce, sebbene non manchi il gusto dell'interrogazione, del dubbio: e questo per staccarsi dalla vieta sentimentalità come dalla perizia tecnica fine a se stessa.

Passando al ciclo dei Pleniluni il discorso non cambia, con i ritmi, interni e di fuori, posti in sincronia, con le grandi impennate cromatiche di lune che paiono uscire qualche volta da crateri, dai vertici di monti incendiati; in altre impaginazioni esse irradiano calma, pace, interludi atmosferici sulle alture  e lungo le valli. Sono talora composizioni dai contorni movimentati, come di nebulose già addensate: persiste comunque un nesso logico in questi pleniluni espansi, e pure il fuoco chimerico di alcune tele è governato, tuttavia, da uno schermo filtrante, controllato. Coaguli, emulsioni, invenzioni di colori risultano, in effetti, rese poetiche personali, in cui la consonanza rappresentativa non viene compromessa: sono fulminanti richiami di un’emozione naturale nell'ambito di una tensione, sia in pittura sia in grafica. Qualcuno ha scritto:  "Far entrare l'ideale nel reale", e noi concordiamo appieno, riguardo a Morone.

Concludiamo dicendo che questa è creazione climaticamente e strutturalmente felice. Il dipinto, il foglio inciso, questi luoghi fantastici si legano nell'insieme in virtù dell'istantaneità della luce, del segno. Si resta d'accordo, credo, che le opere di Morone sono toccate con affetto dalla sua mano. E la sua arte l'intendiamo “come vita innamorata di se stessa“.

                                       

                                                                                        Ernesto Caballo   (1978)

 

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