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Recensione della Mostra a cura di Ernesto Caballo

Storia e preistoria di un pittore

Che ci siano risultanze allotropiche in non pochi quadri di Lionello Morone è fuori discussione, così come è ammissibile che gli stessi titoli globali, Fiori con paesaggi, Pleniluni, Migrazioni intendano andare oltre la reperibile sostanza del fatto figurale. Ma ci troviamo in un giro per niente vizioso fra uno spogliarsi dalle maniere astratte, informali e da appigli simbolisti e decorativi (certe tessere staccate di fiori fra redoniani e klimtiani) per giungere a un paesaggio fisico, e viceversa – ma di quanti pittori questo si può dire, da Gorky A De Kooning, mettiamo, a Pignon, allo stesso De Stael: le categorie della forma non contano in modo impegnato, esclusivo; la scoperta di certi pittori d’oggi è la libertà anche in questo senso ,giustamente è stato osservato che la materia tradizionale pittorica va osservata come medium.

Dei fiori, sempre ricorrenti in Morone, si può anche osservare che sono embrionali, puntuti, duri; ma che egli intenda, per dirla con Cézanne, realizzare le sue sensazioni alla presenza della natura è innegabile, e giustifica così perfino in senso letterale i titoli delle sue tele, così come gli elementi fedelmente morfologici nei profili di astri, monti, valli no escludono la collusione informale, raggiungendo talvolta una violenza cromatica, come in alcuna Migrazioni, dell’intensità dei “Cobra”, timbrici, finanche percussivi. A buon diritto A. Mistrangelo, dopo aver accennato per alcune di queste opere a un simbolo magico di un nuovo universo, accredita a quei colori un “senso di astrazione contemplativa”.

L’interesse è la molteplice, niente affatto contraddittoria modalità che Morone offre in parecchie sue composizioni con autenticità leggermente spostata nella propria connessione. Ossia, il mondo esteriore esiste, ma con un aspetto di ambivalenza: e citiamo i grumi di colori-case e svirgolature espressioniste dei Paesaggi, le grandi colate cromatiche dei Pleniluni con i ritmi di fuori e quelli interni posti in sincronia. Certo, il filo che collega i quadri all’arte raffigurativa è solido, Morone -almeno oggi – non si pone ai veri confini, gli preme piuttosto fornire un saggio di soggettività senza ricorrere però alle facili allegorie; ma la realtà  è di certo separata dal realismo.

Rimane da esaminare il ciclo di Fiori e archeologia che con quello delle Migrazioni costituisce la più recente versione della pittura di Morone.

Ai fiori, come staccati dal suolo, già siderali, rappresentanti la condizione dell’estremo effimero, e proprio a commisurare la sostanza e la diversità del tempo, si contrappongono nella parte inferiore del quadro graffiti rupestri e runici, dolmen, anfore dissepolte, conchiglie eccetera. In quel rapporto i fiori possono essere considerati quali sismogrammi emotivi come certi calligrafismi di Mathieu.

A prima vista, da simili quadri si può dedurre, con un tale rapporto di misura e dismisura temporale che l’eternità – l’hanno già detto altri – comincia e finisce oggi. Oppure si dimostra che la storia ha diversi punti di vista centrali. Con tutto ciò Morone non manifesta il rischioso piacere di essere “antico”: in una siffatta tematica è meglio lasciar cadere le intenzioni esterne e lasciar carbonizzare i sentimenti. Che, infine, la storia la si cominci a scrivere, o a dipingere, prima che questa esista forse non è un temibile paradosso.

Vogliamo aggiungere che ad alcune di queste composizioni non manca una suggestione animistico - totemica, un’eco sincera d’antiche cose raccontate con impegno, uno scavare o reperire, più che soggetti di architettura, calde tracce dell’uomo: una vera geologia. Si deve trattare di una realtà passata che nutre la presente: una mappa sovente crittografica in cui l’arcaico non disperde la sua lezione che importa più della sua databilità. Ma la distanza fra quelle antiche strutture (e scritture) e noi e certo più psicologica che cronologica; il rapporto, alla fin fine, potrebbe anche rivelarsi a temporale, salvo che Morone abbia con i graffiti, i dolmen,  sottolineato una talquale archeologia del presente (di oggi), un viaggio sempre attuale in una cultura dimenticata ma indispensabile. Ha evitato di esibirsi in qualsiasi esotismo del tempo, ovviando al riguardo anche ogni pseudo-filologia ricostruttiva. Chissà che egli non abbia inteso invece accennare ad una sua privata, personale preistoria. C’è da scommetterlo, se tornerà su un simile motivo.

Vogliamo infine ricordare che le punteggiature gremite e sinuose delle Migrazioni possono assimilarsi a limatura colorata che si muove in campi magnetici (i soliti cieli turchini, scuri d’ogni quadro).

Le incisioni meriterebbero un più diffusa notizia. I fiori, non di consonanza rappresentativa come quelli delle tele, sono bloccati, più corposi e disegnati. E’ un fitto erbario con segni duri e sottili, con valori bruni e bianchi su supporti ritmici sempre variati; fiori, lo ripetiamo, che non sono più come quelle sigle-stenografate d’alcuni suoi quadri. Le morsure, le riprese risultano molte, a secchi tratti nervosi, e la tensione costante n’è forse il maggior pregio; processo ideativo ed esecutivo sono simultanei, si arriva alla pura essenza del soggetto, all’esatta qualità della linea che non è solo mezzo di memoria formale. Non mancano oggetti, fatti a mano d’uomo, reperti immemoriali, come se Morone si fosse piazzato all’origine di quelle cose.

 Ernesto Caballo

 

Recensione pubblicata sul “Corriere di Torino e Provincia”

Agli ormai noti “Pleniluni” che hanno caratterizzato buona parte delle sue composizioni, Lionello Morone aggiunge ora “Fiori con paesaggi”, “Migrazioni” e “Fiori con archeologia”. Il contesto generale è il medesimo: colline e terre in continua tensione, tanto da immaginare visioni di altri pianeti, i cieli scuri, strisce d’ombra di fredda intensità, giochi di luce di misteriosa provenienza; poi la presenza di un astro nell’infinito (non osiamo parlare  di luna o di sole) oppure fiori di fantasia che zampillano come fuochi d’artificio. E se nei “Pleniluni” si potevano intuire recondite dolcezze in questa natura primordiale, nelle “Migrazioni” il colore diventa violenza ambigua, affascinante ma certamente perturbante. Le insinuazioni di reperti archeologici nei paesaggi sta a significare – con ogni probabilità – che il mondo è finito, rimangono piccole vestigia a testimonianza del tempo passato. In ogni sfumatura tematica, Lionello Morone evidenzia la solitudine, un senso di panico coinvolge realtà e ricordi, il segno dell’avventura è marchio materiale e psicologico. Scrive Ernesto Caballo: “A prima vista, da simili quadri, si può dedurre, con un tale rapporto di misura e dismisura temporale, che l’eternità comincia e finisce oggi”. Ma quale oggi? Le ere di Morone non sono classificabili, rimangono sospese negli interrogativi più inquietanti ed il dramma dell’umanità è già terminato, rimane una natura angosciata ad attendere un nuovo ciclo, rimangono gli astri, i nuovi fiori, i colori che vogliono vita. Si potrebbe parlare di pessimismo eppure per una sorta di magico paradosso i dipinti di Morone – dopo una certa assuefazione – portano serenità e pace, contro ogni analisi logica.

Vittorio Bottino

 

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