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Presentazione della mostra a cura di Marco Franceschetti

Da circa quarant'anni Lionello Morone ed io percorriamo una lunga strada fatta di amicizia, di stima reciproca con i suoi bravi momenti di discussione e di dissenso. Una lunga strada alla ricerca, io, di parole da imbrigliare in un testo e Morone di quelle sensazioni, di quelle emozioni, di quei colori della sua Langa da liberare poi nelle incisioni o negli oli. E' una pittura la sua fatta di un invitante pudore, che emana una luce fresca e gioiosa che ha il sopravvento su una certa vena crepuscolare là dove le colline sono quasi appese alla luna che senza volto le guarda. Parlo del Morone dei primi tempi dove i segni delle colline, smarriti nei verdi-azzurri, sono vissuti da squilli di colore, le rare case, che segnano la presenza dell'uomo. Questi squilli di colore sono proprio lì a dire che non siamo soli nel nostro cammino, che non è solo la natura ad avvolgerci, ma che un’umanità, quale?, è presente e vicina: una terra dove forte nasce la pianta della posia.

E’ un rapporto intimo tra l'uomo e la natura quello che vive nei suoi quadri, un rapporto di solitudine che nello stesso tempo è presenza.

Dopo i quadri e le incisioni lunari Morone ha trascorso la bella stagione delle migrazioni quando voli scomposti ma precisi di uccelli marcano il nostro infinito, l'azzurro del cielo e le colline maturano un loro colore di terra, senza più la presenza dell'uomo,delle sue case. Ed è in quei voli articolati, così indecifrabili che si posa il nostro desiderio di lasciarsi trasportare nell'infinito in un ampio respiro di vento.

Paesaggi pieni di affetto dove i blu, i bianchi, i rosa-terra dei dossi e delle colline, dei calanchi, sono quasi un contrappunto ad una gamma di gialli chiari e scuri in una continua successione di tonalità. E' il risultato di uno studio costante, continuo, ragionato. Negli ultimi quadri di Morone le colline non sono più chiuse in un tratto ma si espandono, si sfaldano, si amalgamano per un nuovo ulteriore slancio di poesia verso quel cielo che ha adesso toni più chiari, quasi una lacca per impreziosire quello sfaldamento della memoria. Nei primi paesaggi c'è quasi il desiderio di definire una forma nel suo tratto: ora Morone è diventato padrone di quei paesaggi, di quei colori, ed allora li ricorda. Così come nella memoria, i particolari tendono a sfumarsi, i colori diventano però più vivi, più presenti ma in un'amalgama che la memoria, appunto, restituisce a loro stessi.

Non è polemica la sua pittura, non ha grida la solitudine che appare dai suoi dipinti perchè nei toni caldi in cui si esprime non c'è spazio per l'urlo, perchè è nata all'aria aperta in un dialogo continuo ritmico e dialettico con una natura limpida e piena di atmosfera, di profumi. Una campagna così aperta e così adatta allo svagarsi dei pensieri, alla continua meditazione e  che ci invita ad entrare in questa dimensione: una pittura fatta di pudore, dicevo, ma che nello stesso tempo invita a penetrarla per assaporare appieno tutta la musicalità e la poesia che essa contiene. Quasi uno scrigno segreto di cui l'autore ci fornisce la chiave per violarlo. Ed è un invito ancora più forte quando appaiono i suoi fiori. Una volta erano appuntiti, secchi, un retaggio di altri mondi che risaltavano assai bene nelle incisioni, oggi invece si sono fatti più corposi, grandi con i gialli ribollenti come lo sguardo dell'estate ed il lungo respiro che il vento regala alla terra. Nel suo studio nei Roeri Morone naviga con la sua tavolozza in quel mare di Langa assolata e verde piena del rosso dei vigneti, nel cangiare delle stagioni e osserva ogni piccolo sommovimento, ogni piccola sfumatura di colore che poi regala a noi con l'invito ad una rilassante passeggiata con lui che ci è compagno e guida e che con i suoi silenzi, di Langa, ci fa godere questo affascinante mondo.

 

                              Marco Franceschetti

                                                             

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