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Presentazione della mostra a cura di Ernesto Caballo

Migrazioni e Pleniluni

Sono stato forse il primo “lettore” dei dipinti di Lionello Morone - ”mon lecteur, mon frère” - gli ho suggerito di staccarsi dalla setta privatissima degli iniziati, pur assecondando più di un ammicco al metafisico e all'astratto. Pittore, fra l'altro, di paesaggi allusivi, egli non vi chiude sopra i cieli; vive con una certa irrequietudine la propria moderazione, affronta la pena costitutiva dell'uomo che vuole creare una visione del suo mondo; riesce ad equilibrare le polarità delle cose rappresentate, sapendo che, oltre al colore e alla luce, conta la posizione, cioè lo spazio che invade lo spirito. Eppoi ha una gran modestia di fondo, non già di mezzi espressivi, e l'arte per lui è qualcosa di più di una speranza, di una scommessa: voglio dire che Morone non si cura dei “pedaggi terreni” (Apollinaire) e d’altri onori proibiti, ad esempio la maestria, di cui possiede ad ogni modo gli appigli; ma ogni uomo vive, respira in un proprio stile.

Egli non sceglie la neutralità, bensì il confronto. E' per il reale, benché lo de-realizzi: lo ha dimostrato nella serie di Fiori paesaggi, nei Fiori e archeologia, in Altri spazi e in una cartella d’acqueforti tutte implicate nel seguire connotazioni d’aspetti pluriversi e, al contempo di una schietta, articolata equivalenza.

Oggi presenta a Cuneo Migrazioni e Pleniluni, nell'alternanza delle modalità pittoriche e grafiche. Nella prima serie si avverte non solo il passo delle stagioni, ma il grande, inarrestabile flusso dei loro aspetti premonitori, e si sente il fiato largo dell'esodo attraverso i cieli, reso più suggestivo da un mistero. Dove si poseranno questi stormi migranti, di un'estensione e distanza davvero galattica? E' forse l'abbandono, l'addio estremo, senza scampo, seppure in una cornice luminosa? Ma noi crediamo in una via d'uscita che si riaprirà dentro di noi. Si nota nei quadri, nelle acqueforti delle Migrazioni una stimolante associazione dell'uomo con gli impulsi e gli orientamenti naturali (non naturalistici). Tutto s'incentra nel fiore dei nervi che emancipa il fitto repertorio e le sue raffigurazioni dal gioco del caso e delle congetture.

Vale inoltre la consistenza dell'immagine in se; se si prospettava un labirinto fra la vita e l'uomo che la “dipinge, questo labirinto non esiste più essendo stato superato. Si registrano infine momenti di un paese alto e dolce, sebbene non manchi il gusto dell'interrogazione, del dubbio: e questo per staccarsi dalla vieta sentimentalità come dalla perizia tecnica fine a se stessa.

Passando al ciclo dei Pleniluni il discorso non cambia, con i ritmi, interni e di fuori, posti in sincronia, con le grandi impennate cromatiche di lune che paiono uscire qualche volta da crateri, dai vertici di monti incendiati; in altre impaginazioni esse irradiano calma, pace, interludi atmosferici sulle alture  e lungo le valli. Sono talora composizioni dai contorni movimentati, come di nebulose già addensate: persiste comunque un nesso logico in questi pleniluni espansi, e pure il fuoco chimerico di alcune tele è governato, tuttavia, da uno schermo filtrante, controllato. Coaguli, emulsioni, invenzioni di colori risultano, in effetti, rese poetiche personali, in cui la consonanza rappresentativa non viene compromessa: sono fulminanti richiami di un’emozione naturale nell'ambito di una tensione, sia in pittura sia in grafica. Qualcuno ha scritto:  "Far entrare l'ideale nel reale", e noi concordiamo appieno, riguardo a Morone.

Concludiamo dicendo che questa è creazione climaticamente e strutturalmente felice. Il dipinto, il foglio inciso, questi luoghi fantastici si legano nell'insieme in virtù dell'istantaneità della luce, del segno. Si resta d'accordo, credo, che le opere di Morone sono toccate con affetto dalla sua mano. E la sua arte l'intendiamo “come vita innamorata di se stessa“.

                                        Ernesto Caballo

 

Articolo sulla mostra di Miche Berra

La scelta di Morone è stata dettata da un desiderio di rompere con una tradizione (almeno una volta tanto) legata particolarmente alla tematica del paesaggio inteso nel senso più tradizionale e naturalistico. Con Morone si è voluto portare un soffio di nuovo, non di avanguardia; un fatto culturalmente più impegnato. Morone vive e dipinge proprio nel cuore di una delle contrade più suggestive della “Granda”: i Roeri. Qua sopra un cocuzzolo, dove i poggi turriti sono circondati da vigneti di nebbioli e di bonarda, di noccioleti, pescheti e i fusti vigorosi e contorti dei peri “madernassa”, d'inverno, alzano i rami spogli, come se fossero braccia imploranti e la pacciamatura dei fragoleti disegna neri solchi di plastica, qui ai Bordoni Lionello Morone ha lo studio e qui nascono i suoi lavori (dipinti e acqueforti), quei Pleniluni e Migrazioni la cui titolazione stessa è già di per se emblematica e che sottintende molto quell'aura tutta speciale che aleggia (anche folleggia) sui bricchi che videro le gesta dei Roero, dei Malabajla, degli Isnardi e che, nonostante le colline, differenziano questi luoghi da quelli langaroli che sono appena davanti, dall'altra parte del Tanaro.

Lionello Morone, come pittore ha una vita abbastanza intensa. Ha esperimentato molte vie, tutte però legate ad un filone sottile tra un mondo reale e fantastico. Lo comprovano gli stessi titoli delle precedenti maniere: “Fiori e paesaggi”, “Fiori e archeologia”, “Altri spazi”, come ugualmente lo affermano le opere esposte a Cuneo: i Pleniluni e le Migrazioni. Queste nuove espressioni si accompagnano a un senso del misterioso, ad una vena di godimento poetico estremamente comunicativa, che sprigiona, pur nella pacatezza di una materia spesso glabra (nelle incisioni il segno e la tecnica sono di una raffinatezza grafica davvero esemplare) uno splendore costituito da una realtà che confina (e la barra divisoria è appena un filo di seta) con le problematiche più vive del pensiero. Morone sa usare il colore, come spezzare la luce e rendere ”attuali” (benchè, come dice Ernesto Caballo, che presenta la mostra “le de-realizzi”) le superfici, la terra talvolta tufacea altre volte argillosa dei Roeri, sulla quale incombono cieli solcati di voli (puntini che vanno chissà dove) o di lune bianche, rosa o gialline, che illuminano forse sabba di ”masche” , perchè sicuramente, nelle radure dei boschetti intorno ai Bordoni, nelle notti di luna, ancora avvengono.

Morone è un artista autentico e dei  più personali e la sua mostra fa onore al circolo e a Detto Dalmastro: l'opera sua fa pensare: non è di difficile lettura, ma va comunque meditata.

I voli sulle rocce di tufo, su quelle macchie rosse,  sui colori di una tavolozza intensa eppure castigata, su quei blu oltremare, nel quale galleggia il fascinoso cerchio della luna, non ancora violato da navi spaziali, stimolano l'immaginazione e sembra di scoprire una terra sconosciuta, un mondo dell'inconscio, arioso di azzurro vivo di creature che vanno verso l'ignoto, oppure soffitti di cieli notturni che recano messaggi di brusii della vita che esplode nelle notti di luna.

 Miche Berra(Gazzetta del Popolo-23-03-1979)

 

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